La magia dei monti pallidi
La Val di Fassa ha la capacità di stregarti. Se ci vieni una volta, non puoi fare a meno di tornarci.
Periodo consigliato
Mag - Ott
Dislivello Totale
7.862 m
Lunghezza totale
269 km
Durata
3 Giorni
C'
La magia dei monti pallidi
00
Intro
01
Il largo abbraccio della Marmolada
02
Dall’Agordino alla val di Fassa, attraverso il Passo Rolle
03
Val di Fiemme, Lavazé e Costalunga
04
Gran finale al Gardeccia
È successo anche ai miei genitori, trent’anni fa, quando scelsero Canazei come meta di vacanza dove portare l’intera famiglia sia d’estate che d’inverno.
Quando mi sono imbarcato per tre giorni di avventura in bikepacking, la Val di Fassa e dintorni, insomma, già li conoscevo. Alcuni versanti di salite però mi erano ignoti, altre zone, invece, le avevo frequentate solo con gli sci ai piedi o con le scarpe da trekking: eppure tutti quei monti mi erano familiari. Non che sia un’abilità particolarmente utile, ma riesco ormai a indicare a dito il Catinaccio e le Pale di San Martino, il Sassolungo o il gruppo del Puez-Odle.
A Donato, invece, amico, accompagnatore e meccanico in quest’avventura a pedali, tutto risulta nuovo.
Più volte sulla strada mi capiterà di trovarlo a bocca aperta, meravigliato della bellezza che aveva attorno. Da persona estremamente pratica e previdente, è stato lui a montare le borse sulle biciclette di entrambi, a dare l’ultima gonfiatina alle gomme, a misurare al millimetro l’altezza delle selle.
Il tutto rigorosamente la sera prima della partenza, all’Hotel Chalet Alaska di Pozza di Fassa.
Dalla finestra della camera in cui Donato sta armeggiando sulle bici, vedo scendere fino in paese la pista Aloch, dove d’inverno si allena la Nazionale di sci. Per un paio di giorni la settimana è aperta al pubblico anche alla sera, illuminata dai grandi riflettori. Quando il mattino decidiamo di partire, è il sole invece che illumina da qualche ora Cima Undici e Punta Vallaccia, proprio dietro la seggiovia della Aloch.
Risalendo l’Avisio sulla pista ciclabile in direzione Canazei, il susseguirsi di paesini sembra una filastrocca: Pera, Mazzin, Campestrin, Fontanazzo, Campitello. Tra Alba e Penia la ciclabile viene avvolta completamente in un mantello di alberi e poi, proprio mentre pensi Adesso scendo e mi fermo a mettere i piedi nelle acque fredde dell’Avisio, la pista finisce e inizia l’ascesa verso la Marmolada.
Quello che va su da Canazei è il versante più facile. Per noi però, carichi come siamo di borse e di cibo, è più duro del previsto. Salendo, dopo quattro tornanti, percorriamo una sequenza di gallerie, tutte aperte e illuminate in modo naturale, tranne l’ultimissima. All’uscita di questa compare la diga del lago Fedaia. Come molti altri ciclisti arrivati al cartello del passo, percorriamo il ciottolato che copre la strada sulla diga per goderci quel fantastico punto panoramico. Secondo me, i due chilometri piani da percorrere lungo il lago sono con ogni probabilità i più bei due chilometri piani d’Italia: oltre quota 2.000 metri, con le Dolomiti e prati verdi tutto attorno... A pedalare, le gambe non le senti nemmeno.
Dal momento che i Serrai di Sottoguda sono ancora chiusi – i lavori per sanare i danni provocati dalla tempesta Vaia del 2018 dovrebbero terminare entro l’estate del 2024 – intraprendiamo, in discesa, la strada che in senso contrario ha deciso il Giro d’Italia del 2023 (vedi box). Le scritte sull’asfalto ancora ben visibili, le rampe finali al 15%, il rettilineo di Capanna Bill che infiliamo agli 80 km/h: la Marmolada da Malga Ciapela, minacciosamente detto il Cimitero dei campioni, è una salita leggendaria. La sta facendo un vecchio amico, Daniele, che incontro per caso e ho la malaugurata idea di abbracciare, sudato com’è per lo sforzo: non è stata una bella esperienza…
Le molte foto scattate in cima al Passo Fedaia ci hanno messo appetito e una pizzeria di Sottoguda fa al caso nostro. Perdiamo qualche minuto anche per le viuzze del borgo, ma ne vale la pena: vecchi fienili – che qui, in ladino, chiamano tabièi – e botteghe dove si lavora il ferro si alternano a eleganti e ben curate case di legno.
Ad Alleghe il torrente Cordevole si spalanca in un grazioso laghetto dalle acque smeraldine per il riflesso dei boschi circostanti. Una ciclabile lungo il lago permette di tagliare diversi chilometri di strada verso Cencenighe.
Stiamo per tornare di nuovo in Trentino, che oltre il Fedaia avevamo lasciato per entrare in Veneto. Forse stiamo per non è esattamente la locuzione giusta: i 18 chilometri che da Cencenighe salgono al Passo San Pellegrino, alla pendenza media del 6%, rendono meglio l’idea della nostra velocità di crociera.
A parte l’iniziale galleria in cui Donato – che del pedalare al buio ha una comprensibile paura – sale a circa 1.300 watt, fino a Falcade Alto è un’ascesa tutto sommato normale. Molto lunga, certo, ma un paio di lunghi tratti pianeggianti tra Canale d’Agordo e Falcade permettono di respirare.
C’è anche il tempo di venire a conoscenza di alcuni primati di cui si può vantare Canale d’Agordo: oltre a essere il paese che ha visto nascere papa Giovanni Paolo I, qui hanno avuto origine la prima birreria e la prima latteria cooperativa d’Italia.
I tornanti tra Falcade e Falcade Alto sono i segmenti più panoramici dell’ascesa.
Mi segno tra gli appunti mentali, unico tipo di annotazione che si può prendere quando la strada è all’8%, una pieve dove la pietra grigia spicca sull’intonaco bianco. È, scoprirò poi, la chiesa parrocchiale della Beata Vergine Immacolata.
La Madonna, però, appare ai nostri occhi solo qualche chilometro più su. Dopo il bivio per il Passo Valles, la strada s’impenna fino al 14% e nessun tornante può alleviare tanta pendenza. Donato si apre totalmente la maglia, la salita non molla, gli alberi sul ciglio della strada sembrano avere le stesse nostre sensazioni: stanchi morti, in attesa di ristoro, tagliati a metà. Le rampe finali del San Pellegrino sono ormai tutte in territorio trentino. Il confine regionale è situato presso il laghetto degli Zingari, sopra il quale, non distante in linea d’aria ma invisibile a chi sale, il rifugio Fuciade sarebbe una meta perfetta se solo avessimo una mountain bike.
Di strada, d’altra parte, ne abbiamo fatta a sufficienza oggi. Sul San Pellegrino una fontana di fronte al laghetto ci consente di recuperare liquidi. L’Hotel Costabella dall’altra parte della strada pensa al resto. Tra un’epica mangiata e una dormita da ghiro, infatti, il Costabella ci ha permesso di rimanere a chiacchierare, leggere e giocare a carte fino a tarda sera accolti in una splendida stube in legno.
La giornata seguente inizia tra Cima Uomo e Col Margherita, le due vette più imponenti sopra il San Pellegrino. Si comincia subito in discesa: verso Cencenighe e oltre. Una fresca strada secondaria ci permette di evitare la galleria di Listolade, a poche pedalate da Taibon Agordino e dalla prima salita odierna: Forcella Aurine. Sia questa che la salitella successiva, il Passo Cereda, sono poca roba in confronto a ciò che ci sta aspettando a Fiera di Primiero: la costante e infinita ascesa di Passo Rolle.
Talmente lungo, il Rolle, che è due salite in una. La prima parte, fino a San Martino di Castrozza, non è indimenticabile e si fa più che altro con la testa. Una strada quasi tutta rettilinea e che nel bosco concede poco alla fantasia: bisogna solo menare.
Dopo San Martino, invece, si sale con ciò che rimane nelle gambe e nei polmoni perché abbiamo già un’ora di salita alle spalle e siamo oltre quota 1.500.
Arriviamo alla Baita Segantini, intitolata a Giovanni Segantini, il pittore trentino di fine Ottocento famoso per i suoi paesaggi alpestri. Dai dintorni della Segantini al Passo Rolle la strada è breve e finalmente la salita spiana. Ci infiliamo nel primo luogo in grado di darci da mangiare e, manco a farlo apposta, incappiamo in un ciclista: il gestore dell’albergo Vezzana ammira le nostre bici e spende qualche parola di divertita invidia per la nostra condizione di girovaghi. Stanchi come eravamo, né io né Donato ricordiamo granché di quel pranzo. Dovrebbe essere andato più o meno come segue: pasta al ragù, polenta, salsiccia, strudel. Un respirone e si riparte.
Vengono giù un paio di gocce e fa freddino, ma il rollercoaster che ci attende avrà modo di scaldarci. È un saliscendi dolomitico di grandissimo fascino, che inizia con la picchiata verso Paneveggio. Prima di raggiungere l’omonimo lago teniamo la destra verso passo Valles, risalendo il torrente Travignolo. La strada è di una bellezza misteriosa: stretta e nel bosco, senza alcun traffico e, nei pressi della laterale Val Venegia e della malga Vallazza, circondata da prati dove pascolano le mucche.
Un secondo breve tratto di discesa e poi torniamo a bussare alle porte dell’inferno, ovvero gli ultimi chilometri del Passo San Pellegrino. Averli fatti il giorno prima non è di grande aiuto, sono sempre durissimi.
Superato il rio San Pellegrino e passati sotto le funi dell’impianto che porta verso l’Alpe Lusia, giungiamo a Moena in pieno pomeriggio.
Facciamo un giretto per il centro, dove mi trovo davanti a un piccolo hotel che mi ricorda tanto il Belvedere, l’albergo con finiture rosse che si trova su un tornante del passo della Furka, in Svizzera. Questo di Moena si chiama Hotel Corona e, al posto del rosso elvetico, ha tapparelle, tende e persiane verdi, dello stesso verde dei prati della Val di Fassa che abbiamo intorno. Per dissimulare l’effetto-Furka, Donato ed io proviamo a girarci intorno ma il risultato è solo quello di farci fischiare nelle orecchie da un vigile molto fiscale che ci richiama a rispettare i sensi unici.
Moena mi sembra il paese con la più alta percentuale di finestre e balconi ornati da coloratissimi fiori. Allestire un angolo pensile floreale da queste parti sembra quasi obbligatorio. L’effetto è bellissimo come bellissimi sono i pochi chilometri che ci separano dall’Avisio Park Hotel di Soraga. Appena entrati nella spa dell’albergo, grande quanto un appartamento, le fatiche di giornata sono solo ricordi. Mi colpisce, andando verso la sala dov’è allestito il buffet per cena, un cartellone che pubblicizza il Festival Latemar Librianimati, una cinque giorni di fumetti e graphic novel. Che a Predazzo abbiano pensato a un evento di letteratura per l’infanzia la dice lunga su quanto sia importante, da queste parti, dare varie possibilità alle famiglie in vacanza.
E infatti quante ne abbiamo viste, il giorno dopo, di famiglie che pedavalano sulla ciclabile delle Valli di Fassa e Fiemme! Tra Soraga, Moena e Predazzo si può montare in sella e andare in tutta sicurezza, lontano dal traffico, grazie a questa striscia d’asfalto parallela alla Statale. Nei pressi dello stadio del salto con gli sci di Predazzo ci accorgiamo che qualcosa, nelle gambe, non va. Non girano, c’è bisogno di una seconda colazione rinforzante. Fa al caso nostro la macelleria Dellantonio, non distante dalla chiesa dei santi Filippo e Giacomo, in pieno centro a Predazzo.
È stato difficile rinunciare a prendere mezzo chilo di speck a testa, ma abbiamo convenuto che, quel mezzo chilo, era meglio farselo mettere porzionato in modiche quantità dentro a un panino, con l’aggiunta di qualche fetta di Puzzone di Moena. Per fortuna, per digerire il tutto, c’è ancora qualche chilometro di strada prima di attaccare il Passo Lavazè, che è solo l’antipasto delle ascese che ci aspettano in giornata. Man mano che si sale di quota, restiamo colpiti dagli effetti ancora ben visibili dei danni fatti da Vaia nell’autunno del 2018: il bosco, a pochi chilometri dalla vetta, è quasi interamente divelto. Un paesaggio quasi apocalittico fa ancora più da contrasto con tanta bellezza auto-evidente di strade, villaggi, panorami di cui nei giorni precedenti ci siamo riempiti gli occhi.
Ci facciamo consolare da due elementi che addolciscono un paesaggio così ferito: il cielo terso e il colore, ancora più blu, del lago in cima al passo.
Una veloce discesa nel bosco ci conduce a Novale e Ponte Nova.
Secondo la leggenda, la ninfa Ondina non si fece attrarre dall’arcobaleno usato come esca dallo stregone Latemar che voleva farla sua. Adirato per il rifiuto di Ondina, Latemar scagliò nel lago l’arcobaleno che andò in mille pezzi e donò a quelle acque colori e riflessi che sembrano un incantesimo. Oggi, strizzando un po’ gli occhi, si vede in mezzo al lago la statua di Ondina.
Ora guardiamo la catena del Latemar da Nord-Ovest e, forse in preda a un attacco di follia pre-prandiale, decidiamo di oltrepassare il rio Nova Levante e affrontare un muro insensato verso la frazione di Laner. Un chilometro e mezzo al 12% è ciò che dice l’altimetria, il Mortirolo preso da Mazzo è ciò che avvertono le gambe. Finalmente a Nova Levante abbiamo tempo di sederci a un tavolo e far tornare ossigeno al cervello, anche grazie a un generoso piatto di pasta.
Per la salita al Costalunga, versante Ovest, vale la seguente regola: quando sei al lago di Carezza, nascosto tra gli abeti dell’alta Val d’Ega, fermati un attimo a tirare il fiato perché sei quasi in cima. Secondo la leggenda, la ninfa Ondina non si fece attrarre dall’arcobaleno usato come esca dallo stregone Latemar che voleva farla sua. Adirato per il rifiuto di Ondina, Latemar scagliò nel lago l’arcobaleno che andò in mille pezzi e donò a quelle acque colori e riflessi che sembrano un incantesimo. Oggi, strizzando un po’ gli occhi, si vede in mezzo al lago la statua di Ondina.
La discesa dal Costalunga è una delle esperienza più simili alla MotoGP che si possa fare su un mezzo non motorizzato. Curve veloci, freni da toccare il giusto, asfalto ottimo: in un batter d’occhio Vigo è a portata di pedale. Tornati in Val di Fassa, solo un’ultima salita ci attende, la più dura, forse la più temibile. La si attacca più a Nord di Vigo, oltre Pera, oltre Pozza: l’ascesa verso il rifugio Gardeccia.
L’ultima volta che il Giro d’Italia arrivò quassù, nel 2011, fu una tappa leggendaria. Quasi 230 chilometri e 7.000 metri di dislivello, terza frazione di un trittico di arrivi in salita che, nei due giorni precedenti, aveva messo in fila Großglockner e Zoncolan. Vinse Mikel Nieve su Stefano Garzelli. Gli ultimi arrivati, Matthew Wilson e Michael Mørkøv, impiegarono otto ore e un quarto.
Il Gardeccia dà una mazzata subito, nel primo chilometro. Pendenze fino al 18% portano verso l’abitato di Muncion, poi è tutto una successione di muri da scalare, intervallati da brevi tratti in falsopiano. Strada stretta tra alberi e rocce, pendenze in doppia cifra, brecciolino da evitare qua e là, gente che sale camminando e ti prende per pazzo: difficile trovare una salita più salita. L’ultimo tratto per arrivare alla nostra ultima meta, il Rifugio Gardeccia, posto tra le Torri del Vajolet e il gruppo del Catinaccio, è su fondo sterrato.
Non si mangia ciò che vuoi, ma ciò che c’è. I bagni sono in comune. La colazione viene servita a quell’ora lì e ti devi adeguare. La notte potrebbe far freddo. Eppure non c’è nulla come il dormire tra le montagne, in circoscritti avamposti di umanità. È gente particolare, questa che dorme tra i rifugi: con noi c’erano alcuni escursionisti che, la mattina seguente, si sarebbero alzati all’alba per andare ad arrampicare. E quando ce l’hanno detto abbiamo rivolto loro lo stesso sguardo, meravigliato e incredulo, che loro hanno rivolto a noi quando abbiamo detto della nostra tre-giorni in bici. La sera ci lasciamo andare a qualche birra – quella non manca mai, nemmeno nei rifugi di montagna – in più, tanto domani sarà solo discesa e rientro a Pozza.
C’ero già stato tante volte, anni fa, in questo posto. Un paio di navette portavano le persone fino a qui, alla fine dell’asfalto, e poi i camminatori intraprendevano passeggiate verso il lago d’Antermoia o il rifugio Re Alberto. Ricordo la camicia di flanella con cui camminava mia madre. Quante volte, anticipando il suo passo, io e mio fratello ci siamo fermati al rifugio Passo Principe a giocare a carte ingannando l’attesa!
Credo che alla fine si sia capito. Quello che ho scritto è, di fatto, un lungo elenco di motivi per cui, quando si scopre la Val di Fassa, poi, inevitabilmente, ci si torna. Non solo le montagne, il cibo o l’aria buona legano indissolubilmente le persone a questi posti: sono le storie, i ricordi a farci tornare. E poi tornare, e tornare ancora, per scoprire ogni volta qualcosa di nuovo.
Tipologia di bici
Road
* informazione Publiredazionale
Testi
Michele Pelacci
Foto
Nicola Damonte
Hanno pedalato con noi
Donato Cafarelli, Michele Pelacci
Questo itinerario lo puoi trovare sul super-magazine Destinations – Italy unknown / 2, lo speciale di alvento dedicato al bikepacking. 12 destinazioni poco battute o reinterpretazioni di mete ciclistiche famose.