Puglia is a state of mind
800 chilometri, 6 province, mare e colline, tradizione e innovazione.
Periodo consigliato
Gen - Dic
Dislivello Totale
4.971 m
Lunghezza totale
804 km
Durata
8/10 Giorni
S
Puglia is a state of mind
00
Intro
01
Fidarsi del tre
02
Testa bassa
03
Lo sperone d’Italia
04
Idratante e lenitivo
05
Un imprevisto è la sola speranza (uno)
06
Cento, cento, cento!
07
Un imprevisto è la sola speranza (due)
08
Lu sole, lu mare e lu ientu. Più i trulli
09
Ricominciamo?
Sono un viaggiatore solitario che ha trovato nella bicicletta il mezzo perfetto per coprire lunghe distanze e vedere quelle che per me sono nuove terre. Lentamente. Scattando foto, girando video, stringendo mani. E proprio per questo motivo mi sono sempre imposto una piccola regola, un capriccio per alcuni ma una vera e propria legge inviolabile per me: non visitare mai lo stesso Paese. Immaginatevi la mia faccia quando, dopo aver domandato in redazione se potessi scrivere qualcosa per Destinations, la loro risposta è stata: certo, vieni con noi in Puglia!
Ma come? Io? Ho respirato e pedalato la polvere delle lunghissime strade di campagna pugliesi fino ai diciotto anni, sono cresciuto in un paesino di quattromila anime nella provincia di Taranto, conosco come le mie tasche quelle strade, quei profumi, quei tramonti al sapore di sale, olio e primitivo di Manduria. E ora mi fate tornare a casa? Ma soprattutto, il mio comandamento che fine fa?
Ci vorranno quantomeno nuovi occhi, penso. Ma non ne sono sicuro.
Viaggio da solo perché da solo detto i miei tempi. Da soli sì è completamente immersi nel presente, i sensi sono acuti, accesi: ogni cosa che accade, ha a che fare con te e con te soltanto. E poi si è aperti: all’altro, al nuovo, al diverso. In più di tre persone ho sempre sostenuto che non sia più un viaggio, ma una gita con i compagni del liceo. E già questo è stato un ottimo punto di partenza. Tre, numero perfetto. Sintesi del pari (due) e del dispari (uno), diceva un certo Pitagora.
Prima volta per me in bicicletta, in viaggio, con due quasi sconosciuti. Avevo intercettato French qualche anno fa, era venuto a raccontarmi delle sue fatiche in tandem con la sua Laura, proprio nel mio programma. Mi aveva incuriosito. Ci siamo persi, anche causa Covid, e poi ritrovati. Beve il suo caffè americano in un piccolo bar sul lungomare barese. Ha il cellulare in mano e studia le carte come un vero capitano. Le tre navi sono pronte. Al suo fianco Paolo, che tutti conoscono come Penni. Amici comuni mi hanno tanto parlato di lui e per un solitario come me la parola amici ha una connotazione e un valore molto importante. Ne ho pochi, pochissimi, ma di loro mi fido ciecamente. Penni sarà il fotografo che ci seguirà, sempre in bici, durante gli ottocento chilometri e circa cinquemila metri di dislivello. Si è svegliato prima di tutti questa mattina. Mi mostra gli scatti che ha già realizzato sul molo San Nicola, zona porto.
Sbircio le foto dallo schermo della sua macchina fotografica. Ci sento dentro l’odore dei ricci di mare e del polpo.
«Sono da poco passate le nove, ma io ho già voglia di cozze» sbotto.
Ridiamo.
Bari è perfetta come punto di partenza per questa avventura. Sono un tarantino, un pugliese della Terra di mezzo, e nonostante adori tutto il Salento sono sempre stato circondato da amici baresi. Ho condiviso tanto, tantissimo con loro. E ora questa città mi sta regalando facce nuove e una nuova partenza.
Si punta a Nord. Molfetta, Bisceglie, Trani, Barletta. Nel capoluogo ci torneremo tra qualche giorno.
Si parte.
«Centodieci?» Chiedo ai ragazzi mentre con un pezzo di pane onoro il piatto di orecchiette al ragù appena divorato.
«Qualcosa in più» bofonchia il French mentre si copre educatamente la bocca con la mano sinistra e con la destra prosegue il movimento circolare che ripulisce il primo piatto tipicamente pugliese.
«A me risultano almeno duemila metri di dislivello», ride Penni.
Ne abbiamo fatti un centinaio, di chilometri, da Bari in direzione Manfredonia. Il vento sempre contro e il sole pungente hanno abbrustolito i nostri visi. Il Mondo, il nostro Pianeta continua a soffrire a causa della crisi climatica e pedalare con 30 gradi a ottobre non è affatto normale. Piacevole? Probabilmente. Normale? No. Che poi il punto è sempre lo stesso: il problema non è solo il caldo anomalo, ma il cambiamento improvviso e repentino di temperature associato a catastrofici eventi climatici. Ma non vogliamo capirlo, che ci frega, la Terra è grande.
Se solo utilizzassimo un po’ di più questo mezzo così semplice, così divertente! La biciclet in dialetto pugliese. O meglio, nel dialetto del mio paesino. Guarda come spinge lungo tutta la costa adriatica. Guardala sfrecciare tra un semaforo e l’altro nei caotici centri abitati.
Auto, auto, auto, ma solo all’interno dei paesini e delle città. Fuori, le provinciali e le statali sono vuote, e noi corriamo veloci. Trentadue gradi fa segnare adesso il termometro dell’orologio. Birra, spezziamo il ritmo. Il trenino riparte. Il French a rompere questo fastidiosissimo maestrale, Penni a ruota e poi a fatica il mio bicipite femorale che urla. Tre mesi di stop dalla bicicletta si fanno sentire. Ma tengo botta. I ragazzi spingono e stargli dietro così è davvero una passeggiata.
«Acqua, sale e grano duro, tanto amore e manualità. Ecco la ricetta della felicità o delle orecchiette» suggerisco mentre osservo i miei due navigati ciclisti assaporare un altro giro di primi. «Chiancarelle o recchjetedd ma anche strascinate. Le chiamiamo anche così. E vedi che ti mangi».
C’è allegria e il buon Negramaro che stiamo sorseggiando favorisce la convivialità. L’antipasto a base di caciocavallo, ricottine e qualche salume è letteralmente volato via. Così come la seconda porzione di pane di Altamura che avevamo chiesto qualche minuto fa, insieme a un filo d’olio. Andiamo in bici perché ci piace mangiare. Credo sia già stato detto più volte e ripetuto, ma non posso che ribadire il concetto. E ci piace anche rallentare, muoverci a un ritmo più umano, più vicino alla vita sincera. Chiacchiere, confessioni, risate e programmazioni. Penni ci mostra qualche scatto della giornata. Il French divora trenta, forse quaranta olive. Come biasimarlo, così piene, così gustose.
«No, il secondo non riusciamo proprio» esclamiamo in coro mentre il casaro della masseria in cui dormiamo ci chiede se desideriamo procedere. Siamo pieni, non solo di cibo.
Sembrerà assurdo ma è la verità: non ho mai pedalato nel Gargano. Manfredonia, Mattinata, Vieste, Peschici per me sono sempre state località di villeggiatura distanti, raccontate dai miei amici trentenni mentre frequentavo il liceo. Ne ho un ricordo che non è mio, riportato. Erano anni che continuavo a promettermi di sostituire quelle immagini dipinte da altri con foto scattate dai miei occhi, e da quelli di Penni.
La giornata è stata memorabile. Sessanta chilometri e mille metri circa di dislivello di occhi lucidi e bellezza seducente. Vado piano in generale, ma in salita ancor di più. Posso pedalare all’infinito ma ho sempre la testa per aria a guardarmi intorno. La partenza da Manfredonia è segnata da una colazione a base di focaccia. I pomodorini ciliegini schiacciati su tutto l’impasto e le quindici olive nere (sì, le ho contate ogni singola volta che finivano in bocca) ci pongono nella miglior condizione possibile per la partenza. I carboidrati, c’è poco da fare, svolgono sempre il loro dannato compito di droga naturale. L’ascesa non fa mai male: c’è qualche strappo al dieci percento, ma nulla che spezzi il ritmo.
«Dopo quel muro, scollina» è la frase che spesso ci siamo ripetuti durante tutta la mattinata. Ed è stato proprio così. Ogni volta che ho desiderato un pelino di discesa, l’ho ritrovata. Per poi spingere sui pedali dopo un centinaio di metri e affrontare un altro breve dislivello.
Non riesco a tenere ferma la testa. È un continuo osservare, studiare, godere. Boschi e macchia mediterranea ricoprono interi appezzamenti di terreno, che si perdono lontani. Le scogliere a picco sull’Adriatico creano un contrasto, una sfumatura e una miscela di verde e di azzurro, che anche l’occhio di un distratto osservatore riuscirebbe ad apprezzare. Il dato è incredibile: su quarantamila ettari circa di territorio, più del 15% è boschivo, e proprio lì si trova la Foresta Umbra, che racchiude al suo interno la Faggeta Vetusta Patrimonio Naturale Unesco dal 2017.
E pensare che alle medie avevo imparato che la Puglia, di boschi, ne ha ben pochi. Ma non qui.
L’otturatore della macchina fotografica di Penni fa da costante sottofondo ai pieni silenzi che riempiono la nostra giornata.
Spiagge distanti, archi creati da conformazioni rocciose a tre ore da casa. Questa terra ora mi sembra così nuova, ancor più ricca.
«Piano, vai piano in discesa!» mi urla il French.
«Non posso – rispondo – sono molto più pesante di voi, è chiaro che vi superi con facilità!»
Le risate sovrastano solo il fischio del vento che abbiamo nelle orecchie.
Vieste è inaspettata.
Sembra di essere sul set de Il Signore degli anelli.
All’arrivo, a guardia della città garganica, il monolite di Pizzomunno. È una roccia alta circa venticinque metri, simbolo della città e sinonimo di leggende e racconti. Max Gazzè ha ripreso la più nota tra le leggende e nel 2018 l’ha resa nazionalpopolare cantandola al Festival di Sanremo con il titolo La leggenda di Cristalda e Pizzomunno.
Tutta Vieste è arroccata su di una penisola rocciosa. Continuando a pedalare ci indirizziamo verso la piccola penisola di Punta San Francesco, dove sorge l’antico centro medievale. È proprio qui che termina la nostra giornata. Neanche il tempo di svuotare le borse, fare una doccia, che siamo già con le gambe sotto il tavolo a bere del buon vino e mangiare zuppa di pesce. Giornata irripetibile.
«Sveglia pelandroni» è la coccola che Penni ci riserva per la mattinata. È sempre il primo a fare colazione. Ammiro questa sua capacità di essere così fresco da subito. Il suo bioritmo gli permette di rendere bene nelle prime ore della giornata. È il primo a uscire, il primo a tirarsi su, il primo a prepararsi, a lavarsi i denti. Esattamente l’opposto di me, che tendo sempre a carburare con calma. Per fortuna, da quello che ho imparato in questi giorni, il French si colloca esattamente nel mezzo. E questo mi rende la vita più semplice. L’orso (o il lupo, fate voi) che c’è in me, fatica ad adattarsi a relazioni con altri animali, soprattutto con altri esseri umani. Ma da viaggiatore cerco di essere adattabile e flessibile, o almeno ci provo. Questa nostra diversità però crea equilibrio. Il trio funziona bene, c’è armonia, anche se, chiaramente, ci si studia. Ma le sensazioni non mentono. C’è sinergia, mai contrasto. Il French prepara l’itinerario, Penni accelera le procedure di vestizione e abbandono dei giacigli, io arranco ma mi diverto a riprendere tutto il documentabile: la videocamera è sempre accesa e l’idea è quella di creare un mini doc senza pretese di questa avventura.
Il dolore muscolare per quanto mi riguarda c’è, ma non è così importante. Diciamo che il callo in zona inguinale si deve ancora riformare ed è la cosa che mi crea più fastidio. Dopo l’Islanda in solitaria, qualche mese prima, non ho avuto modo di continuare ad allenarmi e così ho perso la mia già scarsa forma fisica.
«Hai male da qualche parte te?» chiedo a Penni.
«Assolutamente no, fresco come una rosa» esclama sarcastico.
«Io prendo un autobus e ci vediamo a San Severo eh» gli rispondo.
Rido mentre incuriosito osservo la piccola confezione di forma cilindrica che tiene tra le mani. Gli vedo svitare il tappo e mettere un dito dentro a crema di color giallo intenso, ma molto solida. Non ha un odore particolare, ma vedo che se la spalma sulla pelle, all’altezza delle ossa ischiatiche. Almeno è quello che mi dice, perché va bene l’intimità della squadra ma il senso del pudore non è ancora stato completamente superato.
«Idratante e lenitivo – mi dice mentre mi porge la scatolina. – Usalo. Fidati».
Rivelazione.
Dopo un’oretta circa di pedalata siamo a Peschici. Il French sbaglia un paio di sensi unici per entrare nel centro storico. Si prende ogni tipo di maledizione possibile perché il giro che rifacciamo per tornare a visitare il Castello Normanno ci costa, o forse è più corretto dire mi costa fatica, proprio perché situato nel punto più alto della città. Ma grazie alla pasta lenitiva di Penni il dolore si è attenuato e anche la risalita risulta gradevole. Il paesino è davvero una piccola perla e, seppur in maniera rapida, gli dedichiamo del tempo pedalando a passo d’uomo per tutto il centro. Ci sono tanti turisti nonostante sia bassa stagione, le temperature del resto consentono tranquillamente il bagno.
La tentazione di fermarci per una seconda colazione è alta, ma desistiamo. I chilometri fatti sono pochi rispetto a quelli da percorrere.
Asfalto, salita, discesa, vento.
E poi asfalto, discesa, salita… e Alvento.
Lungo la strada che ci porta verso Rodi Garganico ci imbattiamo in strutture che mai avrei immaginato di trovare anche qui: i trabucchi.
Sono lunghi pali di legno che si intrecciano a fili e carrucole e così composti costruiscono efficaci macchine per la pesca.
Ho imparato del loro funzionamento qualche anno fa ed effettivamente, seppur rari, sono perfetti per la conformazione della costa garganica. La modalità di pesca è geniale, quanto intuitiva: dopo aver immerso nel mare una grossa rete, si attende l’arrivo di un banco di pesci; quando, dopo la segnalazione di uno dei pescatori che fa da vedetta su una delle antenne più alte, il banco giunge in prossimità del trabucco, la rete viene azionata e velocemente tirata su con un complesso sistema di carrucole.
Oggi la maggior parte di questi trabucchi sono stati recuperati dall’Associazione La Rinascita dei Trabucchi Storici che organizza visite ed esperienze di pesca con l’intento di salvaguardare un’antica tradizione. Alcuni sono invece adattati a ristoranti e sarebbe stato anche interessante fermarci a testare le qualità degli stessi, ma «San Severo è lontana – incalza il French – rimettiamoci in strada. E poi, sono da poco passate le undici, qua in Puglia non ti danno neanche la colazione a quest’ora!». Il suo accento piemontese-pugliese è terribile.
Se dovessi giungere a una considerazione dopo questi primi giorni di pedalate, a parte qualche normalissimo dolorino fisico, è che tutto è dannatamente perfetto. Una buona compagnia, orizzonti ricchi di bellezza e percorsi sinuosi che sono così felice di ritrovare in questa parte di mondo a me così familiare. Del buon vino, birra all’occorrenza e meteo favorevole. Sin troppo perfetto. Un imprevisto sarebbe stata la sola speranza per creare qualcosa di ancor più unico e memorabile per noi tre, e consolidare una nuova amicizia. Perché, diciamoci la verità, la vita reale è quella che accade mentre siamo impegnati a realizzare i nostri sciocchi obiettivi e portare avanti i nostri piani farlocchi.
E gli imprevisti non si sono fatti attendere.
La partenza da San Severo era già chiaramente un campanello di allarme.
«Senti questo suono?». A malapena riuscivo a distinguere le parole di Penni, mentre teneva premuto il freno anteriore e con il peso del corpo spostava la bicicletta in avanti. Acuto e distorto, ferroso e cigolante.
«Saranno le pastiglie dai – aveva suggerito il French –. Andiamo a cercare un negozio di bici e cambiamole».
Alle 11.30 del mattino, tre ore dopo la scenetta del cigolio, eravamo ancora fermi a San Severo. 33 gradi.
Ora, sia chiaro, non voglio creare false aspettative di chissà quale imprevisto, ma se come me e come noi siete stati in viaggio in bici, avrete già intuito che affrontare una tappa di cento chilometri con partenza a mezzogiorno non sia proprio una scelta intelligente. Oltretutto il ritardo non era dovuto a chissà quale strana congiunzione astrale. Anzi. Il ragazzo responsabile del reparto tecnico del negozio era stato terribilmente premuroso.
«Prima di metterti nuovamente in strada devo essere certo che non vi siano altri problemi» aveva continuato a ripetere e quindi aveva effettuato: cambio di pastiglie, controllo della catena, verifica dei dischi, controllo delle guarnizioni, cambio dell’olio, check dell’elettronica e probabilmente, se avesse potuto, avrebbe anche fatto una visita biomeccanica per accertarsi del corretto posizionamento in sella.
Per fortuna l’abbiamo evitato.
Alle 13 eravamo tutti e tre in fila indiana sotto il sole foggiano.
Caldo. Dio mio. Che caldo. Non respiro.
Alle 14.50 vedo svoltare il French a destra. Il cartello, in alto, recita: CINOVIA.
«Ma che cazzo è una cinovia?».
Nella vita ho imparato che l’ignoranza può essere anche uno stato mentale meraviglioso. Il non sapere, delle volte, ti pone meno preoccupazioni, ti fa vivere più sereno. Forse.
Non so se quello che ho letto è stato frutto della mia immaginazione, ma alla mia domanda non ricevo alcuna risposta. Uno, due, tre, quattro, cinque e…
«Sei? Ne ho contati sei, giusto?» urlo.
Il French e Penni annuiscono. Sono a piedi, giù dalle biciclette.
«Calmi, state calmi» continuano a ripetere con fare pacato ma, evidentemente, bluffando.
I cani abbaiano come se gli avessimo pestato la coda, rubato il pasto o portato via una delle loro pecore. Ma non c’è alcun gregge. E sono parecchio incazzati. Alcuni di loro tentano di avvicinarsi. Mettiamo le biciclette tra i nostri corpi e i loro canini. Il nostro lento incedere sembra tranquillizzarli. Sempre che ringhiare e aumentare i decibel del loro guaire possa considerarsi un gesto di distensione e scampato pericolo. Scherziamo, forse per non farci prendere dal panico. Sei cani sono davvero tanti.
«La cinovia potrebbe essere la via dei cani, no?» accenna Penni.
Fanculo.
Alle 15 circa siamo completamente fradici di sudore. La temperatura è salita ancora, il termometro ora segna 34 gradi. La sosta a Lucera è obbligatoria. Una bibita fresca, poi un’altra. Non sono mai riuscito a pedalare al caldo, divento una tartaruga. I ragazzi portano pazienza e mi stanno vicino.
Alle 16.15 le parolacce pronunciate non sono trascrivibili.
«Che succede?» chiedo mentre raggiungo il French e Penni, poco più avanti.
«Eh guarda» mi fanno cenno. Un chiodino nello pneumatico anteriore di Penni fa sgonfiare la ruota in pochi secondi. Tiro fuori la macchina fotografica e riprendo tutto. Loro lavorano, io faccio il clown. Sempre così.
Ore 17.20. Attraversiamo Cerignola con una sola sosta per bere ancora qualcosa e gonfiare ancora un poco la gomma anteriore di Penni.
Mancano venti chilometri. Conto ogni singolo metro.
Non volevamo perderci il tramonto… Mancato totalmente.
Mi lancio in una doccia infinita che dura tre, forse quattro minuti. Sento brontolare lo stomaco come se non mangiassi da un mese.
C’è più silenzio questa sera. Siamo davvero cotti. Poi però tutto si rompe così:
«Ma che cazzo è una cinovia?».
La sveglia suona puntuale alle sette e questa volta non cedo alle lusinghe del letto. La colazione, dopo la cena faraonica nella splendida masseria a Sud di Canosa di Puglia, è paragonabile a un pranzo da matrimonio. E io godo. Con Penni riusciamo a divorare quattro bruschette con olio, pomodorini e formaggio fuso, ciascuno; un cappuccino per lui e due tazze di caffè americano per me. Ci spartiamo e terminiamo una deliziosa crostata, ancora calda, con marmellata di fichi e, per non farmi mancare la coccola quotidiana, cedo allo yogurt bianco biologico con cereali, mandorle e due gocce di miele. Il French ci guarda inorridito mentre beve il suo caffè. Io godo l’esplosione di gusti e sapori dolci e salati. Poco prima della partenza è il mio pneumatico anteriore a farsi trovare impreparato. Bucato.
«Meglio qui che in strada».
Ripariamo e partiamo.
La Puglia è lunga. Stretta, forse, ma soprattutto lunga. È la prima cosa che imparerete se non ci siete mai stati. Dal cartello autostradale che indica il cambio di Regione fino a Santa Maria di Leuca ci sono circa quattrocento chilometri.
No, la nostra destinazione non è l’ultimo avamposto pugliese, ma darvi questo riferimento è necessario per giustificare l’ulteriore tappa da cento chilometri che stiamo percorrendo. Ma con tutta quella benzina in corpo siamo dei vulcani. Dopo una trentina di chilometri vedo il French svoltare a sinistra sulla statale che ci sta conducendo verso il punto più importante dell’intero viaggio. Almeno a mio parere.
Agriturismo, ristorante, cucina tipica. Leggo.
«Ma cosa diavolo…» commento.
Degustazione di Burrata di Andria I.G.P.
Siamo completamente drogati. La colazione è andata, lo stomaco è improvvisamente vuoto. Penni scatta foto e ride. Il French assapora con gusto e si lecca dita e baffi: il pizzetto è bianco, bianco burrata. Il responsabile fa appena in tempo a spiegare che il tipico latticino fresco nasce grazie a un’intuizione del mastro casaro andriese Lorenzo Bianchino, che abbiamo già divorato le quattro burrate che ci hanno offerto. Ci racconta che agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso, durante una forte nevicata che colpì la Murgia e Andria in particolare, il mastro casaro cercò di ingegnarsi per la conservazione e per il trasporto dei latticini che, a causa del freddo, diventava sempre più difficile. Pensò così di creare una sorta di sacchetto protettivo della stessa pasta della mozzarella, per proteggere quella che aveva sfilacciato, abbinata alla panna vaccina. L’intuizione fu geniale. È così che è nata la Burrata di Andria.
Sazi. Di cultura e di gusto.
Ringraziamo e con non poche difficoltà proseguiamo verso la metà più ambita del viaggio.
Siamo nel Parco Nazionale dell’Alta Murgia, in direzione di Castel del Monte.
La breve salita che dall’agriturismo ci accompagna verso il sito Patrimonio dell’Unesco ci permette di ammirare l’unicità e la maestosità della fortezza costruita nel XIII secolo. Magnetico fiore all’occhiello dell’intera Regione, Castel del Monte è un luogo ricco di sacralità e impossibile da non visitare. Ci avremmo dedicato l’intera giornata ma la strada, dopo poche ore di visita, riprende a chiamarci. I chilometri rimanenti sono settanta. E oggi, il tramonto, non vogliamo proprio perderlo.
Ulivi, polvere, cavalcavia e chiacchiere. Il tempo scorre e noi insieme. Il passatempo preferito di Penni è cimentarsi in imitazioni improbabili di telecronisti legati al mondo del ciclismo. Il passatempo preferito del French è studiare traiettorie, percorsi e passaggi mozzafiato. Li osservo e prendo nota. Imparare sempre qualcosa dall’altro. La vita è fatta di queste piccole sfumature.
La monotonia fa parte del percorso, non pensiate che sia tutto continuamente una grande festa. L’ho detto prima: la Puglia è lunga. Io pedalo e mi faccio guidare. Per la prima volta in vita mia durante un viaggio non devo preoccuparmi di nulla, se non abbracciare ogni singolo attimo di questo trio così inedito e singolare. L’arrivo nella masseria che il French ha prenotato è perfetto. Come un pittore, Penni dipinge i colori di un tramonto rossastro sulle nostre facce stanche. Le immagini sono così ricche. La colonna sonora è il tintinnio dei bicchieri colmi di birra, dei taralli grandi e piccoli, delle olive dolci, piccanti e salate. È tutto perfetto. Troppo?
Voglio essere onesto. Se siete arrivati a leggere fin qui, vuol dire che abbiamo intrapreso ufficialmente un rapporto di fiducia. Quindi è giusto che vi dica completamente la verità. Amo gli imprevisti. Le prime volte che partivo in bicicletta in solitaria mi divertiva programmare ogni minimo particolare. Ma puntualmente i piani venivano stravolti. Più ero preciso, più mi ritrovavo in giornate ribaltate. E m’incazzavo. Perdevo la testa.
Ma accumulare esperienza porta proprio verso una maggiore consapevolezza.
E alla fine ho maturato questo pensiero: si parte dal punto A e si arriva al punto B. Nel mezzo, si vedrà. Questo è un discorso – una filosofia, dai! – che può benissimo attuarsi quando appunto si è da soli, quando magari si ha diverso tempo a disposizione per godersi le giornate e il viaggio stesso. Ma quando, come nel nostro caso, si deve portare a termine un compito, un lavoro, scrivere un articolo, girare un docutrip e soprattutto scattare delle foto, ecco, forse in questo caso, la mia filosofia può tranquillamente andare a farsi benedire. Intendiamoci: in questi giorni trascorsi non ho mai avuto la sensazione di incombenza o del dover fare; anzi, ogni ritardo, ogni sosta, è sempre stato un momento per confrontarci, chiacchierare, conoscerci. Ma la sveglia di questa mattina mi e, oserei dire, ci ha completamente trovati impreparati.
«Raga, ho male proprio in basso. Ahia, ahi..» sussurra il French mentre appoggia piano piano la tazza di caffè sul comodino accanto al suo letto.
«Questo sarà un problema» aggiunge.
Sono le 7.50. Guardo Penni e gli chiedo: «Che succede?».
«L’apparato renale del Francescutti non funziona alla perfezione – sorride – e quindi oggi coliche».
Ambulanza.
I lamenti del French non si placano, noi siamo preoccupati sempre di più. In questi casi l’unica opzione possibile è imbottirsi di antidolorifici e sperare che passi, momentaneamente.
Il viaggio potrebbe essere davvero compromesso. Le foto, l’avventura, il vino buono, la focaccia. Tutto svanito. Adesso siamo preoccupati per Stefano.
Sono le 8 circa, quando saluto con la manina l’ambulanza che ha caricato i miei due compagni di avventura. Il dottore non ha voluto rischiare e ha deciso di farlo ricoverare per procedere a esami più approfonditi. Penni ha ovviamente seguito il French. Io sono da solo qui, in masseria, a tentare di capire cosa fare. Poi, l’ovvia considerazione. Parto verso la prossima tappa, in qualche modo ci ritroveremo a Brindisi.
Centoquindici chilometri.
Ulivi, stradine dissestate, salite e discese affrontate con il pensiero al resto del team.
Passo secoli a pedalare osservando costantemente tutto ciò che mi circonda, davanti, dietro e di lato. Poi il silenzio è rotto.
Messaggio audio whatsapp. È Penni. Dice che il French sta bene, che ha fatto tutti i controlli del caso e che per ora è tranquillo. Inutile fare il malato quando il dolore è passato, vuole ripartire: «Aspettaci, oppure rallenta. Arriviamo».
Sono incredulo, ma felice. Ci incontriamo a Ceglie Messapica che è già pomeriggio. Poco male: la gamba gira bene, anche grazie ai numerosi biscotti cegliesi che ho ingurgitato in attesa dei miei due compagni. Stiamo per toccare la provincia più a Sud, quella di Lecce, prima di finire questa lunghissima giornata a Brindisi.
Il pasticciotto a colazione è la giusta ricompensa per la giornata trascorsa e già archiviata. Crema pasticcera e pasta frolla. Lo divido con Penni, mentre il French beve il suo caffè, seduti sul lungomare di Brindisi. Di fronte a noi lu sule, lu mare e lu ientu. Vengo a conoscenza che proprio Brindisi fa parte delle venti mete più digital nomad friendly del mondo, il che vuol dire che è un luogo perfetto per venirci a lavorare da remoto. Ci rifletto, anche se sarà difficile far passare questa mia volontà in radio, penso sorridendo.
Ripartiamo lasciandoci alle spalle il Monumento al Marinaio, la cui forma di timone è facilmente distinguibile proprio sul porto della città. Penni ci chiede di scattare qualche foto sulla scalinata di Virgilio, qualche metro distante dal bar in cui abbiamo fatto colazione. È il punto che segnava la fine della via Appia, l’importante strada di comunicazione tra Roma e Brindisi appunto. È chiamata scalinata di Virgilio perché Publio Virgilio Marone, l’autore dell’Eneide, nel 19 a.C. morì proprio a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia.
Lu ientu soffia e questa mattina tutti indossiamo le giacchette. La brezza marina ha abbassato il termometro di almeno una decina di gradi.
Finalmente si viaggia nelle mie temperature di comfort. Dopo una ventina di minuti ci dirigiamo verso l’Isola di Sant’Andrea. Siamo davvero a due passi dall’aeroporto e il continuo boato di aerei in decollo e atterraggio si confondono solo con il fragore delle onde, mentre scattiamo qualche foto nell’area del vecchio faro. Sullo sfondo, il Castello Alfonsino.
Ci rimettiamo in sella, in direzione Nord-Est. Il mare alla nostra destra ci coccola e tenta di distrarci dal maestrale, che a volte ci ritroviamo in faccia e delle volte tenta di disarcionarci con spintoni lato pacco pignoni. La pedalata è in salita, ma mai rabbiosa. Abbandonata la costa, affrontiamo pendenze che non superano l’8%. Siamo così sereni e ci sentiamo talmente bene, che superiamo in scioltezza Ostuni, Cisternino e Locorotondo per arrivare nella Valle d’Itria. Il tramonto lo ammiriamo nella magnifica Alberobello. Conosco benissimo quest’altro fiore all’occhiello della mia Regione: è stato per anni meta di gite domenicali durante la mia infanzia. Dichiarato anch’esso Patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco, nel 1996, è diventato meta turistica unica e per certi versi rappresentativa dell’intera Puglia. Perché? Impossibile non aver mai visto una volta in vita vostra i trulli. Se non l’avete fatto recuperate il prima possibile. Il tipico tetto a forma di cono coperto di tegole di colore grigio, il colore bianco che si colora di arancione e rosso proprio durante il tramonto sono davvero una gioia per gli occhi.
Anticamente utilizzati come abitazioni contadine, sono chiaramente diventati così caratteristici da attrarre visitatori da ogni parte del mondo. Alcuni sono stati trasformati in alloggi destinati ai turisti, pur mantenendo la loro originaria struttura. È in un trullo che dormiremo questa notte, nella penultima delle sere passata sotto lo stesso tetto.
L’interno è davvero intimo e accogliente. Illuminato da pochissime luci, alimentate a energia elettrica, tutto il resto è affidato a eleganti candele. Il letto matrimoniale è proprio di fronte all’entrata, ci dormirà il French, mentre io e Penni ci stiamo trasferendo al piano di sopra. Per salirci c’è una scala di legno che va su quasi perpendicolare al terreno.
«Ci salivo e scendevo tutti i giorni» ci interrompe una voce. È la signora Maria, la nostra dirimpettaia. Vive di fronte al trullo in cui stiamo soggiornando. Sta seduta in ombra, dietro alla tenda di color marrone, forse beige, in vimini. Il viso scavato si distingue appena. Sorride mentre ci dice di essere la proprietaria di quel trullo e che tutta la sua famiglia, sette fratelli più mamma e papà, sono nati e cresciuti lì. Lei si è trasferita per un breve periodo della sua vita «a Padova, vicino alla Svizzera», per poi per far ritorno a casa. Sì, proprio così: «a Padova, vicino alla Svizzera». Tutto vero. È deliziosa.
Se cercavamo immersione nella cultura locale, eccoci serviti. Qual era il primo comandamento di Destinations 2023? Ride with locals? Ecco, per quello di quest’anno aggiungerei: parla con la gente del posto, soprattutto quando ha molte rughe sul viso. Questo non solo in viaggio, ma nella vita.
C’è un filo di malinconia quando un viaggio di questo tipo sta per giungere al termine. All’inizio di questa avventura, l’idea di perdermi a casa mia mi pareva a dir poco sciocca e fuori luogo. Pedalare sulle mie strade non era una prospettiva così affascinante, ma ora finalmente comprendo, dopo tutti questi anni, l’affermazione di Proust, o di chi per lui, e capisco che cosa vuol dire «avere nuovi occhi». Non ho mai viaggiato in gruppo perché mi è sempre sembrato di non rendere onore alla strada, al percorso, alle persone che incontravo. Farlo però con anime belle ha un valore e un sapore più intenso, più genuino. Come le strascinate che abbiamo divorato a cena ad Alberobello ieri sera o come le friselle con olio d’oliva e pomodoro fresco.
L’ultima tappa da Alberobello a Bari è tutta in discesa. Nel vero senso della parola. Sessantacinque chilometri di risate, sfottò, ricordi e scatti meravigliosi. La sosta a Polignano a Mare è d’obbligo dopo aver abbandonato l’entroterra ed esserci diretti verso il nostro punto di partenza, che chiude il giro. Il vento è nostro amico, la strada è pulita, l’asfalto da Giro d’Italia. Polignano è sempre una certezza. Le scogliere, le case a picco sul mare. Ma è Bari che ovviamente ci riserva l’accoglienza migliore.
Appena arrivati in zona molo antico ci fermiamo a bere una birra nel barettino proprio alla fine del mercato del pesce. Il French assaggia dei frutti di mare freschissimi. Con ancora la birra che ha preso il posto delle borracce ci dirigiamo verso l’Arco Basso, punto d’accesso per la Bari più autentica, Bari Vecchia.
Pedalare a passo d’uomo tra i vicoli ci immerge in un’atmosfera così antica, ma rinnovata. Tutta la zona inaccessibile durante la mia adolescenza è stata ripulita. È sin troppo semplice ritrovarsi incastrati tra la folla di turisti incuriositi dalle tantissime signore che impastano e con mani piene, mani lavoratrici, realizzano il piatto più antico della tradizione: le orecchiette. Ma è nella sosta finale che troviamo la consacrazione dell’intera spedizione: brindisi seduti nei vicoli addentando a bocca piena i meravigliosi panzerotti. Cosa desiderare di più?
Sono felice di aver trovato questa nuova Puglia e questi nuovi volti, che da oggi saranno volti amici.
Ricominciamo?
Tipologia di bici
Gravel
* informazione Publiredazionale
Testi
Francesco Frank Lotta
Foto
Paolo Penni Martelli
Hanno pedalato con noi
Stefano Francescutti
Questo itinerario lo puoi trovare sul super-magazine Destinations – Italy unknown / 2, lo speciale di alvento dedicato al bikepacking. 12 destinazioni poco battute o reinterpretazioni di mete ciclistiche famose.